About the Book
Il primo luogo della Scozia che sia riuscito ad entrare nell'Albo d'Onore del Patrimonio Mondiale dell'Umanità non è che sia molto facile da raggiungere. Non si trova, infatti, sulla terraferma, né sulle isole che, ad ovest o a nord-est, fanno da corona alla bella regione britannica. È ben più lontano e, senz'altro, assai difficoltoso da raggiungere. Dopo una navigazione di diverse ore (salpando dalle Ebridi esterne), o di uno-due giorni (da Oban). Senza alcuna certezza, poi, di poterlo raggiungere o, infine, di approdarvi, a causa delle difficili condizioni meteo-marine e della mancanza di un sicuro ancoraggio. Nel corso dei secoli quanti viaggiatori sono arrivati nei suoi pressi, per essere poi costretti a tornare indietro... Parliamo, infatti, del remoto arcipelago di St Kilda: quattro isole maggiori, più diverse minori. Un pugno di isole avanzo di un vulcano attivo 60 milioni di anni fa, a cinquanta miglia nautiche ad ovest dell'isola di Harris, nelle Ebridi Esterne. Se si esclude, l'arcipelago è del tutto disabitato, tranne per la presenza, nel corso dell'anno, del personale civile del Ministero della Difesa britannico, addetto alla postazione radar impiantata nel 1957. Fin da quando gli ultimi trentasei abitanti dell'isola di Hirta, l'unica del gruppo ad essere popolata, si imbarcarono nel 1930 a bordo di una nave militare. Oggi l'arcipelago è popolato stabilmente solo da uccelli e pecore di una razza speciale. Solo durante i mesi primaverili ed estivi vi risiede il guardiano del National Trust for Scotland, oltre ad eventuali ricercatori, naturalisti o archeologi e a piccoli gruppi di volontari che, a turno, si dedicano a scavi e restauri nell'ambito delle attività perseguite dal Trust. Intese per lo più a conservare quello che rimane del villaggio abbandonato: 16 "case bianche" (tigh geal) risalenti al 1860, poste ai bordi di un'unica stradina. La successione storica del popolamento di St Kilda ci narra di genti neolitiche assimilate o sostituite da popoli celtici. Oltre ad una presenza, sia pure marginale, dei Vichinghi, che la utilizzarono per rifornirsi di acqua e cibo e che, forse, vi introdussero le prime pecore. Se si volessero enucleare le caratteristiche principali di queste isole atlantiche, si dovrebbe accennare alla difficilissima sopravvivenza di una minuscola comunità marittima, per lunghi secoli rimasta pressoché isolata dalla terraferma scozzese e, perciò, dal cosiddetto "mondo civile." Tanto da essere costretta, dopo ripetute, indicibili e sofferte crisi esistenziali collettive: epidemie, carestie ed emigrazioni, a venire evacuata in tempi a noi recenti. Il forzato abbandono dell'arcipelago da parte degli isolani di Hirta ha innescato una serie di fenomeni di rilevante interesse scientifico per l'ecologo, l'etologo e, in genere, per il naturalista. Solo superficialmente riconducibili ad una problematica di "sostituzione" dell'elemento umano. Va sottolineato come nell'isola di Hirta e in quella di Soay, da dove vennero introdotte dopo l'evacuazione, viva una razza di pecore simile ai mufloni sardi. L'intero arcipelago rappresenta uno spettacolare santuario per gli uccelli marini, che vi straripano oltre ogni misura. Durante l'avvicinamento alle ripidissime, imponenti e impressionanti mura dei due scogli, raggiunti dopo aver circumnavigato Hirta, che da lontano appaiono come punte di rocciosi icebergs, non solo perché rivestiti dal bianco del guano, il cielo è stato oscurato dal volo di migliaia di uccelli disturbati dalla presenza dell'Eilean na Hearadah, un vecchio motorsailer a bordo del quale con difficoltà nella notte precedente avevo raggiunto l'arcipelago. Via radio la guardia costiera da Stornoway aveva infatti consigliato al mio skipper, dopo due ore di navigazione passate nelle acque inquiete dell'Atlantico, di tornare indietro. Dopo aver cercato un ancoraggio in un loch delle Ebridi, verso sera venne ritentata la traversata, questa volta con successo. 7