L'opera di Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio mi ha accompagnato per oltre venti anni dal 1980 al 2000: ogni mattina dalle cinque alle sette ho tradotto, dapprima a penna su quaderni, poi con la macchina da scrivere, e solo negli ultimi anni col computer, in cui poi ho dovuto ricopiare i precedenti sedici libri.
Ho lavorato in solitudine e con metodo filologico, da linguista e da storico, cercando di documentarmi e di operare sul testo, convinto che un testo non arrivi integro e che, nonostante le edizioni critiche, pur ottime, comunque, presenti sempre parti oscure, mal tramandate, tratte da codici diversi ed assemblati alla meglio da studiosi, più o meno condizionati nella loro formazione.
Inoltre avendo già affrontato il problema del testo di autore con Filone di Alessandria (su testo di Wendland e su quello di Hoeschelius-Turnebus, 1614, con traduzione latina, e con qualcuna, cinquecentesca, di Sigismondo Gelenio) mi sono accorto che la trascrizione testuale non sempre è fedele, ma spesso è piegata a seconda dell'utenza, del critico e dell'epoca di edizione e anche della formazione dei traduttori.
Perciò il lavoro sul testo di Flavio, seppure scrupoloso, nei limiti della mia preparazione e della mia isolata operazione, senza supporti accademici, alla fine si è risolto solo in una traduzione mirata in senso linguistico e storico: ho così trascurato il vaglio e l'esegesi delle testimonianze dirette e derivate dei codici esistenti, (anche se ho ricercato le citazioni ed allusioni degli Apologisti e dei Padri della chiesa, interessati ai due scrittori giudaici rifiutati e rigettati invece dalla tradizione rabbinica, che non ha lasciato traccia) circa l'archetipo dei manoscritti greci, relativo ai primi dieci libri.
Inoltre, non ho potuto seguire, neanche forse ne sarei stato capace, la lecsis delle singole famiglie, gruppi e sottogruppi testuali e mi sono attenuto prima a I. Bekker ((Flavii Josephi opera omnia, 6 volumi, Lipsia 1855-56) e poi a Samuel A. Naber (Flavii Josephi opera omnia, Lipsia 1888-1896) che ne aveva ripreso il metodo, seguendone l'indirizzo, lasciando aperte soluzioni, con ampi rimandi a codici scartati e permettendo ricostruzioni sulla base delle note in appendice.
Ed infine ho accettato le risultanze generali di Benedictus Niese (Flavii Josephi opera, 7 volumi Berlino 1885-95), fornito di un grande apparato critico, ben studiato ed elaborato da Etienne Nodet (Flavius Josèphe, Les Antiquités juives I-3, Du Cerf., 1992) che ha fatto un egregio lavoro, lodevole sia sul piano critico-esegetico che su quello specifico della traduzione.
Comunque, ho pure seguito, dove mi è stato possibile, H. Schreckenberg, Rezeptionsgeschichtliche und Textkritische Untersuchungen zu Flavius Josephus, Leida, 1977, che sembra avere un altro approccio, diverso da quello di Niese e di Bekker-Naber.
Ho scelto il testo di Samuel Naber, ma avrei potuto scegliere quello di Niese, in quanto ho tradotto solo per capire meglio il lessico del Nuovo Testamento e confrontarlo con quello di Flavio (e di Filone).
L'obiettivo della mia ricerca è stato ed è quello di trovare la figura umana di Gesù, per inserirla nel suo naturale contesto giudaico: tradurre Flavio mi ha permesso di fare il cronotopo, rilevare la società e la politica ebraica, la sua faziosità popolare, farisaica, antisadducea, antierodiana e profondamente antiromana e di ricostruire la storia e la cultura zelotico-essenica, già chiara nel periodo repubblicano e poi palesissima nell'impero giulio-claudio, specie di Tiberio, e di evidenziare dapprima Jehoshua, tekton, therapeuta e basileus (e poi intravvedere Jesous Christos Kurios).
Angelo Filipponi